3. Sulle tracce di una cultura locale della convivenza in comunità

3.3. Mutamento, dissenso, comunicazione

3.3.2. I limiti dell’opzionalità

L’assenza di modelli unici di comportamento collettivo e la presenza di una pluralità di rappresentazioni possibili della comunità non implicano tuttavia che tali modelli e tali rappresentazioni abbiano goduto sempre di un identico successo e abbiano costituito una gamma di alternative ugualmente ampia ovunque.

Le scienze umane, oggi, mettono in dubbio la corrispondenza semplice tra uno specifico ambiente sociale e politico, da un lato, e una cultura determinata (con i relativi valori e comportamenti), intesa come un prodotto interno, peculiare e connotante di tale ambiente, dall’altro. In polemica con gli sforzi per identificare culture particolari di un ceto (una cultura popolare come una cultura aristocratica), di una comunità (una coerente cultura locale), di un più esteso gruppo etnico e via dicendo, hanno enfatizzato la compresenza entro il medesimo contesto di più sistemi di valori, la loro circolazione e reciproca contaminazione. Individui e gruppi, dunque, avrebbero la possibilità di optare strumentalmente fra codici simbolici e modelli ideali a scopo di legittimazione, di auto–rappresentazione nei conflitti per le risorse materiali e immateriali, selezionando i più promettenti a seconda della situazione e dell’interlocutore [96].

Eppure la tesi di una sempre identica compresenza di possibilità, tutte illimitatamente a disposizione degli individui e dei gruppi, è smentita da quanto è emerso nel presente studio. Ho già sperimentato altrove la possibilità di una via negativa, per così dire, per determinare la specificità culturale: nella ricerca condotta sui discorsi politici delle comunità alpine lombarde nel tardo medioevo e il repertorio di argomenti, parole e metafore del pattismo, ho verificato come ogni soggetto attivo usasse più linguaggi, ma anche come vi fossero linguaggi cui non ricorreva mai. Così, senza proporre un nesso rigido che facesse corrispondere a un protagonista dell’interazione politica un linguaggio politico unico e peculiare, ho potuto comunque ricostruire opzioni esclusive e tratti connotanti nelle elaborazioni ideali di comunità rurali, signori locali, autorità centrali, ufficiali dello stato [97].

Tale procedura analitica conduce a risultati analoghi anche nel caso delle rappresentazioni documentarie delle comunità qui in esame. Le pagine che precedono ripropongono il ventaglio di opzioni aperto davanti alla popolazione per delineare, grazie al tramite del notaio, una forma della propria esperienza sociale, istituzionale, culturale; al contempo smentiscono l’ipotesi della disponibilità di tutte le comunità a sperimentare tutte le alternative astrattamente disponibili. Se si fosse dato il caso di una tale, indefinita apertura, avremmo constatato, in ogni località, la simultaneità tra una gamma ben più ampia di rappresentazioni sociali, nonché una piena reversibilità delle immagini di volta in volta selezionate; avremmo incontrato un dispiegarsi ancora più libero dell’immaginazione dei notai. Invece la scelta che una collettività era indotta a compiere per una forma di convivenza e una rappresentazione da negoziare con il notaio era assai più impegnativa, scartava molte delle soluzioni possibili, che certamente potevano poi tornare in gioco, quando però mutamenti sociali e politici profondi avessero suggerito nuove esigenze o promosso nuovi protagonisti intenzionati a rivendicare una maggiore visibilità.

Nessun notaio pensò mai, ad esempio, di rappresentare Grosio come una piramide gerarchica o Morbegno, Ardenno e Civo come un mosaico di parentele, o una qualsiasi comunità della pianura comasca come una federazione di singole contrade. Inoltre, quando si rinunci alla pretesa di individuare linee di evoluzione inflessibili e di vedere applicate le soluzioni d’ordine prospettate dai documenti con un esprit de géométrie che non è detto sia una categoria universale del pensiero umano, ed anzi risultava presumibilmente estraneo alla cultura notarile tardo–medievale, è possibile identificare, tra incertezze e ripensamenti, dei processi di mutamento che non si presentano come pienamente reversibili. In particolare, nessun notaio del primo Trecento vide il comune per cui operava come una sequenza ordinata di diverse reputazioni individuali; fra XIV e XV secolo a Morbegno il tramonto del linguaggio cetuale fu definitivo e le nuove elaborazioni del principio gerarchico si fondarono esclusivamente sul prestigio dei singoli; alla fine del Quattrocento la scansione delle liste per lignaggio di appartenenza fu abbandonata ovunque e non più ripresa nei decenni seguenti.

Pertanto sono stato indotto ad enfatizzare la variabilità culturale, ma intendendola non nei termini di semplice oscillazione congiunturale o di compresenza fra più possibili ideali di convivenza, tutti offerti agli individui e ai gruppi come materiali liberamente plasmabili per elaborare le loro strategie, bensì nella prospettiva della specificità locale e del mutamento, vale a dire della messa a punto nelle singole comunità di modelli peculiari, differenti da una località all’altra e trasformatisi nel corso dei decenni lungo direzioni riconoscibili.


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note

[96] Rinvio alla Premessa in DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, e alla relativa bibliografia.

[97] M. DELLA MISERICORDIA, «Per non privarci de nostre raxone, li siamo stati desobidienti». Patto, giustizia e resistenza nella cultura politica delle comunità alpine nello stato di Milano (XV secolo), in Forme della comunicazione politica in Europa nei secoli XV–XVIII. Suppliche, gravamina, lettere, a cura di C. NUBOLA, A WÜRGLER, Bologna 2004, pp. 147–215, distribuito anche da «Reti medievali». Ho proposto questo tema di confronto nell’intervento presentato al seminario Nuove tendenze della storiografia medievistica, Trento, 3–4 giugno 2004. L’opzione risulta prevalente anche in Linguaggi politici.